The National Endowment for the Humanities

Semiaride, costantemente ventosa e incline alla siccità – con lunghi periodi di siccità ogni venti anni circa – le erbe erano ciò che teneva insieme la terra, ciò che la impediva di deteriorarsi in un vero e proprio deserto. Le loro radici aggrovigliate tenevano il terriccio al suo posto, impedivano che soffiasse via e che esponesse il denso strato di legno duro sottostante. Ma tanta terra ricca, lasciata alle grazie della natura, è difficile resistere. Alla fine degli anni ’10 e per tutti gli anni ’20, l’erba fu scavata e arata e la terra smossa fu piantata a grano, una coltura in forte espansione all’epoca. Era, come disse Oliver Edwin Baker del Bureau of Agricultural Economics nel 1923, “l’ultima frontiera dell’agricoltura”: sodbustando le antiche pianure per un dollaro – e c’erano molti acquirenti.

Quello che seguì, tuttavia, quando una siccità decennale colpì nel 1931, fu interpretato come biblico: un insieme di piaghe degne del Vecchio Testamento che lasciarono la gente delle pianure a chiedersi se Dio avesse abbandonato il loro paese, rinnegando vendicativamente la promessa del dominio dell’uomo. Il terreno allentato, ora secco e libero di soffiare con i venti, si trasformò in enormi tempeste di polvere che soffocavano il bestiame e ammalavano i bambini; c’erano sciami di parassiti – lepri e cavallette – che consumavano qualsiasi cosa anche solo marginalmente commestibile sul loro cammino; e, naturalmente, senza pioggia, non cresceva assolutamente nulla. Privata delle sue erbe, la terra era distrutta, non solo non coltivabile, ma brutalmente inospitale, con cumuli di terra che potevano sollevarsi e ucciderti. Per proteggere gli occhi e i polmoni, la gente indossava maschere che li facevano sembrare appartenenti a un campo di battaglia della prima guerra mondiale. Per proteggere i loro campi (se erano abbastanza fortunati da coltivare qualcosa), li spruzzavano con il cianuro. Per sfamare i loro figli, vendevano il loro bestiame affamato al governo per un dollaro a capo e lo guardavano mentre veniva distrutto. Per controllare i conigli, organizzavano picnic comunitari che culminavano in sanguinose bastonate, con le carcasse lasciate in mucchi di rifiuti. Questo, nei suoi contorni più ampi, era lo strano, auto-illuminato mondo del Dust Bowl, una zona mutevole di catastrofi (definita da quali contee della regione soffrivano di più in un dato momento) così vasta e distruttiva che implora la descrizione, se non la credenza. È anche il mondo dell’ultimo documentario di Ken Burns.

Dust Bowl è “un film di Ken Burns” in quello che ormai si potrebbe chiamare il senso tradizionale, cioè un’opera di saggistica cinematografica splendidamente realizzata, latitudinale e, come minimo, aspirativamente definitiva, proprio a casa tra le opere precedenti del documentarista. Come Baseball, Jazz, The Civil War, o quasi ogni altro lavoro della lunga filmografia di Burns, ha la sensazione di una storia vera e propria. Ci sono vecchie fotografie e filmati sgranati; resoconti contemporanei da riviste, giornali e corrispondenze; e un piccolo gruppo di teste parlanti (la maggior parte della varietà di professori) – tutti messi insieme senza soluzione di continuità, come se il passato e i suoi detriti fossero pronti per lo schermo. Ma per tutto il lavoro d’archivio e l’attenta erudizione che lo rende così quintessenzialmente burnsiano, Dust Bowl è anche, nel suo nucleo e nella sua parte più avvincente, un tipo di animale sottilmente diverso da quelli che lo hanno preceduto. I tratti distintivi dello stile di Burns non formano tanto la base del film quanto i suoi contrafforti, i materiali necessari ma inconfondibilmente periferici che danno forma e posto alle storie crude dei suoi veri protagonisti: alcuni uomini e donne che, più di settant’anni fa, da ragazzi e ragazze, furono testimoni in prima persona del peggior disastro ecologico causato dall’uomo nella storia americana. Attingendo ai loro ricordi d’infanzia, la visione di Burns degli sporchi anni Trenta si allontana leggermente dal senso di autorità che i suoi spettatori si aspettano e assume qualcosa della qualità ossessionante di un incubo ricordato: viscerale ma vago, frammentato e, a volte, quasi irreale.

È un approccio del tutto appropriato ai terrori del Dust Bowl. Considerate: Che aspetto hanno trecentocinquanta milioni di tonnellate di terra trasportata dall’aria, soffiata da venti di sessanta miglia all’ora e crepitante di elettricità? Come ci si sente a guardare quella nuvola arrivare? Essere catturati dalla sua rabbia abrasiva e accecante? Misurazioni e dati meteorologici, filmati e fotografie, perfino i resoconti dei testimoni oculari possono suggerire solo fino a un certo punto, e Burns, abile narratore quale è, lo sa. Sa che, tra le risorse a sua disposizione, è il punto di vista del bambino, un’attenzione ingenua e commovente sul cosiddetto piccolo quadro, il dettaglio apparentemente vario che tutto ma magicamente dà espressione a ciò che è insondabile al di là di esso. Quando, nel film, Robert “Boots” McCoy ricorda la prima grande tempesta di polvere che ha attraversato le pianure, non è la sua descrizione della tormenta nera in sé che colpisce nel segno (“era proprio come la mezzanotte in pieno giorno”, dice, “proprio come la mezzanotte senza stelle”), ma la vignetta con cui avvolge l’esperienza di avere una catena montuosa di terra che avvolge tutto intorno a sé: “La mamma pregava per questo, sai. E noi bambini” – intende lui e sua sorella maggiore – “eravamo piccoli. E stavamo molto vicini alla mamma, te lo posso garantire”. Nessun fatto o artefatto potrebbe rendere la tempesta più visibile, più reale, per lo spettatore, dell’atto di immaginazione simpatica che ci vuole per evocare l’immagine di questo signore anziano e baffuto da bambino, rannicchiato contro sua madre che pregava mentre la terra scura faceva saltare la loro casa. È un’immagine che rimane impressa. E rimane perché rende la massa della tempesta intimamente intelligibile.

Ancora e ancora, i sopravvissuti intervistati in Dust Bowl ci ricordano che sono stati testimoni dei tempi duri delle pianure da bambini, non conoscendo altro che “un mondo marrone”, come dice uno di loro, e cercando, come meglio potevano, di dare un senso alle difficoltà schiaccianti, al dolore e al coraggio che li circondavano. Le ansie degli adulti indugiano ai margini dei loro ricordi – raccolti falliti, pignoramenti, la possibilità di morire di fame, la vergogna del sollievo, la fuga del suicidio – ma questi non erano i tipi di problemi che, allora, erano preparati ad elaborare completamente. Ciò che ricordano sono schegge evocative di quella realtà. Ricordano quando il padre uccise il vitello della famiglia (i bambini, il padre lo sapeva, avevano bisogno del latte della madre per sopravvivere), e il duro compito di calpestare i cardi (l’unico cibo rimasto per nutrire il bestiame), e la vista di un sole rosso al mattino, che, diceva il padre, annunciava una “brutta giornata” (cioè, tempo da tempesta di polvere). Il fatto che le loro versioni degli eventi provengano da ricordi d’infanzia non toglie nulla al loro valore storico. È solo una storia diversa, metonimica e, inserita nel contesto che Burns e i suoi studiosi forniscono, tanto più potente per questo.

Non fate errori: Il film non evita le cose difficili. I bambini del Dust Bowl hanno visto cose che nessuno, indipendentemente dalla loro età, dovrebbe vedere. E sono capaci come ogni testimone di raccontare quelle cose con una franchezza devastante. Calvin Crabill, per esempio, vide in azione il piano del governo degli Stati Uniti per stabilizzare il prezzo della carne di manzo (c’era anche la Depressione) e dare una mano agli agricoltori delle pianure: Comprare mandrie di bestiame emaciate e senza valore e ucciderle. “Quello che hanno fatto”, dice, “è stato prendere un bulldozer e fare un fosso gigantesco, un fosso gigantesco, e spingere tutto il bestiame lì dentro. E poi c’erano uomini sopra con i fucili, direi forse dieci o venti uomini con i fucili, e hanno sparato al bestiame”. Il massacro è rappresentato nel film dal suono degli spari. “Non dimenticherò mai”, continua, “che stavo lì come un bambino. Avevo probabilmente otto o nove anni quando hanno iniziato a sparare a quel bestiame. Ancora oggi è uno spettacolo che la persona media non potrebbe sopportare. Ma, da piccolo, era molto dura, perché quello era il nostro bestiame”.

E il momento più toccante del film viene da Floyd Coen, la cui sorellina, come centinaia di altre, soccombeva a quella che i medici dell’epoca chiamavano “polmonite da polvere”, una malattia respiratoria causata da minuscole particelle inorganiche nella polvere portata dal vento. Morì in una stanza della casa di famiglia con due stanze, racconta alla telecamera, mentre lui giaceva malato della stessa malattia nell’altra. Il medico ha portato il corpo della bambina su una foglia di tavolo, perché tutti lo vedessero un’ultima volta, prima di portarla all’obitorio. “È stata la cosa più difficile per me”, dice Coen, “e lo è ancora. Era una creaturina così perfetta”. Il volto dell’uomo registra una tale emozione al ricordo che è difficile da guardare.

Ma noi guardiamo. Perché, nel grande schema del film di Burns, è solo un lampo e poi sparisce – abbastanza pathos da registrare le conseguenze umane dello strappo delle praterie; ma non abbastanza da risultare come una sorta di accusa troppo appassionata di coloro che, per ignoranza o avidità o arroganza, hanno fatto lo strappo vero e proprio. Le pianure, sostengono in modo commovente (anche se solo implicitamente) le storie di questi bambini, avrebbero dovuto essere lasciate una profusione d’erba – se lo fossero state, crescervi sarebbe stato meno difficile, meno doloroso. Ma i bambini erano incolpevoli di quell’errore. E la loro sofferenza incolpevole li rende un simbolo risonante di quei sofferenti incolpevoli che potrebbero venire dopo di loro. È proprio qui che Burns termina il suo viaggio di quattro ore: con una preoccupazione (non proprio un avvertimento) per il futuro delle pianure, una preoccupazione che arriva con la sua breve storia e colma il divario tra gli sporchi anni Trenta e oggi.

Gli sforzi del New Deal per la conservazione del suolo hanno riportato la terra. Quando le piogge tornarono nel ’39, e le tempeste di polvere iniziarono a calmarsi, gli agricoltori delle pianure si rivolsero all’Ogallala Aquifer, la falda acquifera di 174.000 miglia quadrate sotto di loro, per soddisfare i bisogni dei loro raccolti. In una regione con così poche e inaffidabili precipitazioni, aveva senso: Tutta l’acqua che potevano chiedere era proprio lì, sotto i loro piedi, e la tecnologia per raggiungerla era finalmente accessibile. I pozzi cominciarono a spuntare ovunque, alcuni alimentando colture che richiedevano più umidità del grano perso solo un decennio o due prima. Quella che all’epoca sembrava una buona idea “è stato l’inizio di una cattiva idea”, dice un anziano alla fine del film. L’Ogallala si ricarica, ma lentamente, catturando solo da 0,024 a 6 pollici all’anno, a seconda della zona specifica in questione: troppo lentamente per tenere il passo con le richieste dei pozzi di irrigazione, che ora sono centinaia di migliaia. È difficile sapere quanta acqua contenga la falda acquifera, ma il suo volume è stato drammaticamente ridotto dal 1950. Al ritmo attuale di esaurimento, la falda acquifera potrebbe, ad un certo punto, essere prosciugata. E quando ciò accadrà, le pianure, le persone che vi abitano e i loro figli potrebbero trovarsi di fronte alla possibilità di un altro Dust Bowl.

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