Frontiers in Physiology

Introduzione

Il massimo assorbimento di ossigeno (VO2max) può essere definito come la massima capacità integrata dei sistemi polmonare, cardiovascolare e muscolare di assorbire, trasportare e utilizzare O2, rispettivamente (Poole et al., 2008). Di solito misurato con il test di esercizio incrementale sul tapis roulant o sul cicloergometro, il test VO2max è diventato una pietra miliare nella fisiologia clinica e applicata all’esercizio fisico. Le sue applicazioni sono numerose e vanno dagli atleti d’élite agli individui con diverse condizioni patologiche (Mancini et al., 1991; Bassett e Howley, 2000). Nonostante sia stato studiato per circa un secolo, le questioni riguardanti il VO2max sono ancora fonte di dibattito e disaccordo in letteratura (Noakes, 1998; Bergh et al., 2000; Levine, 2008; Ekblom, 2009; Noakes e Marino, 2009; Spurway et al., 2012). In particolare, lo studio dei metodi di misurazione del VO2max è un campo di indagine che è stato impegnativo nel corso degli anni (Midgley et al., 2007, 2008). Risultati intriganti pubblicati di recente (Beltrami et al., 2012; Mauger e Sculthorpe, 2012) portano un ulteriore dibattito sulla misurazione del vero valore di VO2max e sui suoi meccanismi limitanti/regolatori. In questo articolo descriviamo brevemente gli attuali metodi di test e i meccanismi di limitazione/regolazione del VO2max, e discutiamo i nuovi risultati di questi due recenti studi e le loro possibili implicazioni nel campo.

Misurazione attuale e meccanismi di limitazione/regolazione del VO2max

Uno dei concetti più popolari utilizzati per ottenere il VO2max durante un test di esercizio incrementale è la comparsa del plateau. L’origine di questo concetto ha le sue basi negli studi di Hill e Lupton (1923) 90 anni fa, in cui proposero l’esistenza di un’intensità di esercizio individuale oltre la quale non c’è aumento del VO2, che rappresenta il limite della capacità cardiorespiratoria. Tuttavia, la necessità del verificarsi del plateau per la determinazione del VO2max presenta delle limitazioni, una volta che si scontra con il fatto che il suo verificarsi non è universale (Doherty et al., 2003; Astorino et al., 2005). Al fine di risolvere questo problema e garantire che gli individui raggiungano sempre condizioni “massimali” alla fine di un test di esercizio incrementale, producendo veri valori di VO2max, è diventato popolare l’uso di parametri fisiologici come criteri per l’interruzione del test di esercizio basato sul rapporto di scambio respiratorio, la frequenza cardiaca massima e le concentrazioni di lattato nel sangue (Poole et al., 2008). Questi parametri, però, se usati come criteri per la determinazione del VO2max, possono sottostimare il valore reale misurato fino al 26% (Poole et al., 2008). Infine, la soluzione attuale proposta per la determinazione del VO2max quando il plateau non si verifica, è l’uso del picco del VO2, che sembra essere un indice coerente del VO2max, a condizione che dopo il test incrementale venga effettuato un test di esercizio sovramassimale costante, chiamato “fase di verifica” (Day et al., 2003; Midgley e Carroll, 2009).

In letteratura sono attualmente discussi due principali modelli teorici che mirano a spiegare i meccanismi di limitazione e/o regolazione del VO2max. Il modello classico propone che il VO2max è limitato dalla capacità massima del cuore di fornire O2 ai muscoli, cioè, quando si raggiunge il VO2max il sistema cardiovascolare sta lavorando al suo limite (Ekblom, 2009). In alternativa, l’altro modello sostiene che il sistema cardiovascolare non raggiunge mai un limite di lavoro, e che il VO2max è regolato, piuttosto che limitato, dal numero di unità motorie reclutate negli arti in esercizio, che è sempre submassimale (Noakes e Marino, 2009). Quindi, questo modello propone che ci sia sempre una riserva fisiologica, sia cardiovascolare che neuromuscolare, una volta che il numero di unità motorie reclutate dai muscoli attivi durante l’esercizio è regolato dal cervello per prevenire il fallimento catastrofico dei sistemi corporei (Noakes e Marino, 2009).

Il VO2max che misuriamo è davvero massimale?

Indipendentemente dai meccanismi di limitazione/regolazione del VO2max (Ekblom, 2009; Noakes e Marino, 2009), si ritiene che l’attuazione di criteri specifici durante il test di esercizio incrementale come la durata (Midgley et al., 2008), la presenza della “fase di verifica” (Day et al., 2003; Midgley e Carroll, 2009), e la velocità di acquisizione del campione di VO2 (Astorino, 2009), si ottengano dei veri valori di VO2max. Il primo studio (Mauger e Sculthorpe, 2012) ha confrontato un test di esercizio incrementale convenzionale (vale a dire, con incrementi di carico fissi fino all’esaurimento volontario) con un test di esercizio incrementale massimale auto-paced regolato dalla percezione individuale dello sforzo. La durata totale di quest’ultimo era di 10 minuti, distribuiti in 5 fasi di 2 minuti ciascuna, in cui gli individui hanno controllato l’intensità dell’esercizio in ogni momento al fine di raggiungere una percezione individuale dello sforzo di 11, 13, 15, 17 e 20, rispettivamente, nella scala di Borg a 15 punti. È interessante notare che questo test incrementale massimale autodidattico ha portato a un VO2max significativamente più alto (≈8%; Figura 1A) rispetto ai valori trovati durante il test di esercizio incrementale convenzionale (Mauger e Sculthorpe, 2012).

FIGURA 1

Figura 1. (A) VO2 e i dati di potenza in uscita per il protocollo incrementale autodidattico (in alto) e il protocollo incrementale convenzionale (in basso) in un soggetto rappresentativo. Un VO2max più alto (media di gruppo ≈8%) è stato raggiunto nel protocollo incrementale autodidattico durante il carico di lavoro submassimale. (B) VO2 e dati di velocità per il test incrementale convenzionale (sinistra) + fase di verifica (centro) e per il protocollo decrementale (destra) in un soggetto rappresentativo. Un VO2max più alto (media di gruppo ≈4,4%) è stato raggiunto nel protocollo decrementale durante il carico di lavoro submassimale. Il VO2 è rappresentato da linee solide e le linee tratteggiate rappresentano la velocità. “Reproduced from Mauger and Sculthorpe (2012) and Beltrami et al. (2012) with permission from BMJ Publishing Group Ltd.”

Il secondo studio (Beltrami et al., 2012) ha confrontato un test di esercizio incrementale convenzionale con un protocollo decrementale (cioè, con livelli di intensità di esercizio decrescenti nel tempo). Questo protocollo decrementale è iniziato alla velocità utilizzata durante la “fase di verifica” del test incrementale, cioè, 1 km h-1 più veloce dell’ultima fase compiuta durante il test di esercizio convenzionale. Questa intensità è stata mantenuta per il 60% del tempo individuale che i soggetti erano in grado di tollerare durante la “fase di verifica”, con una successiva riduzione della velocità di 1 km h-1 per 30 s e riduzioni consecutive di 0,5 km h-1, in cui ogni fase è stata mantenuta per 30, 45, 60, 90 e 120 s, rispettivamente. Analogamente al test incrementale massimale auto-paced (Mauger e Sculthorpe, 2012), il test decrementale proposto ha portato a un VO2max significativamente più alto (≈4,4%; Figura 1B) rispetto al test di esercizio incrementale convenzionale (Beltrami et al, 2012).

La principale spiegazione suggerita dagli autori per i risultati riscontrati nel primo studio (Mauger e Sculthorpe, 2012) è che la natura del protocollo autodidattico può aver permesso una maggiore potenza di uscita per lo stesso livello di percezione dello sforzo o del disagio, portando a un maggiore VO2max prima dell’esaurimento volontario. Questo si è verificato nonostante i valori di frequenza cardiaca, ventilazione e rapporto di scambio respiratorio siano simili al protocollo convenzionale. Ulteriori suggerimenti come un maggiore contributo relativo delle fibre di tipo 1 dipendenti dall’ossigeno con una conseguente riduzione della componente anaerobica del test, e/o un aumento della domanda e dell’utilizzo di ossigeno a causa dell’elevata potenza nell’ultima fase del test incrementale autodidattico, potrebbero anche aver contribuito al maggiore VO2max trovato (Mauger e Sculthorpe, 2012). È da notare che sono già state sollevate critiche a questo studio (Chidnok et al., 2013). Allo stesso tempo gli autori del secondo studio (Beltrami et al., 2012) suggeriscono che le differenze nella percezione anticipatoria del carico di lavoro dei protocolli, crescendo nel test incrementale convenzionale e riducendosi nel test decrementale, potrebbero aver influito sulle pulsioni simpatiche o parasimpatiche e portato a diverse risposte metaboliche all’esercizio e al maggiore VO2max. Sorprendentemente, entrambi gli studi hanno mostrato che gli individui non allenati (Mauger e Sculthorpe, 2012), o allenati (Beltrami et al., 2012) hanno raggiunto i maggiori valori di VO2max durante i carichi di lavoro submassimali, sfidando il concetto tradizionale che il VO2max si verifica al carico di lavoro massimale.

Implicazioni delle nuove scoperte

Una volta riconosciuto e ulteriormente confermato che gli attuali metodi di misurazione VO2max (cioè, protocollo convenzionale di esercizio incrementale) forniscono, infatti, valori submassimali, quali sarebbero le implicazioni dei nuovi veri valori di VO2max trovati (Beltrami et al., 2012; Mauger e Sculthorpe, 2012) sul corpo esistente di conoscenze relative a questo settore? A nostro parere, una parte considerevole della conoscenza scientifica sarebbe leggermente influenzata, a causa dell’esistenza di un errore sistematico. Per esempio, gli studi che mirano a verificare l’effetto di interventi specifici sul VO2max hanno già delle sottostime del VO2max aggregate nei loro risultati. Poiché i valori pre e post intervento sono misurati con lo stesso protocollo, gli effetti dell’intervento sui valori di VO2max sarebbero ancora misurati correttamente, nonostante la sottostima del valore reale di VO2max. Al contrario, gli studi basati sulle percentuali di VO2max, come la zona di allenamento aerobico per il fitness cardiorespiratorio, per esempio, che varia abitualmente intorno al 50 e all’85% del VO2max, avrebbero il suo intervallo spostato a destra. Allo stesso modo, sarebbe necessario rivedere le equazioni indirette per stimare il VO2max, poiché fanno uso di valori di riferimento del VO2max che, secondo le nuove scoperte (Beltrami et al., 2012; Mauger e Sculthorpe, 2012), sono submassimali. Tuttavia, conoscendo l’entità della sottostima del VO2max da parte dei protocolli incrementali convenzionali, le equazioni matematiche sarebbero in grado di fornire correzioni a posteriori, riducendo/correggendo tali imprecisioni.

Contrariamente all’impatto relativamente minore sopra descritto, i risultati di un VO2max maggiore di quello comunemente riscontrato durante le prove di esercizio incrementale convenzionali sono in conflitto con i modelli teorici proposti per spiegare i suoi meccanismi limitanti/regolatori (Ekblom, 2009; Noakes e Marino, 2009). Se i valori di VO2max riscontrati finora durante le prove incrementali convenzionali sono limitati dalla capacità massima del cuore di fornire O2 ai muscoli (Ekblom, 2009), come si può spiegare un tale aumento (Beltrami et al., 2012; Mauger e Sculthorpe, 2012)? Identifichiamo due possibilità. Il modello teorico potrebbe essere ancora corretto, cioè, il VO2max è effettivamente limitato dalla capacità massimale del cuore, anche se, i valori di VO2max trovati durante i test incrementali convenzionali non sono veramente massimali, e protocolli alternativi sarebbero in grado di aumentarlo. In opposizione, il modello potrebbe essere sbagliato nell’affermare che il VO2max è principalmente limitato dalla capacità cardiaca, e potrebbe esistere un altro meccanismo per spiegare la sua limitazione/regolazione. L’altro modello teorico (Noakes e Marino, 2009), a sua volta, è anche in conflitto con i risultati. Se il cervello regola il numero di unità motorie reclutate durante l’esercizio al fine di prevenire il fallimento catastrofico dei sistemi corporei, regolando così il VO2max raggiungibile, perché il cervello permetterebbe agli individui durante questi due nuovi protocolli (Beltrami et al., 2012; Mauger e Sculthorpe, 2012) di raggiungere valori di VO2max superiori a quelli dei test incrementali convenzionali? Il cervello, sulla base del feedback afferente da vari sistemi, non regolerebbe il numero di unità motorie reclutate in modo simile, indipendentemente dal protocollo di esercizio eseguito?

Una possibile spiegazione per i recenti risultati può essere trovata risalendo alla proposta di Jones e Killian (2000), che ha esaminato le prove per dimostrare che, piuttosto che le limitazioni basate sulla capacità dei meccanismi di rilascio di ossigeno, le limitazioni cardiorespiratorie e di esercizio sono basate sui sintomi. Questi autori, considerando le percezioni periferiche e centrali dei dati di sforzo, hanno sollevato l’importanza di considerare questi sintomi come fattori limitanti quando si misurano le prestazioni di esercizio e il VO2max (Jones e Killian, 2000). Un recente modello teorico sottolinea ulteriormente l’importanza fondamentale dello sforzo sulla regolazione e la tolleranza delle prestazioni negli esercizi di resistenza (Marcora e Staiano, 2010; Smirmaul et al., 2013). I più alti valori di VO2max raggiunti (Beltrami et al., 2012; Mauger e Sculthorpe, 2012) potrebbero essere stati associati a risposte percettive alterate a causa delle differenze nei protocolli utilizzati. Tuttavia, questa possibilità rimane speculativa.

Conclusione

Le proposte di diversi protocolli di esercizio che portano a valori di VO2max superiori a quelli comunemente riscontrati durante le prove di esercizio incrementale convenzionali dovrebbero interessare la comunità di fisiologia dell’esercizio e dello sport. Allo stesso tempo, tali risultati hanno un impatto leggero su una parte considerevole delle conoscenze, sfidando, per esempio, i modelli teorici per spiegare la limitazione/regolazione del VO2max. Inoltre, sfidano anche il concetto che il VO2max si verifica al carico di lavoro massimo. Mentre lavori recenti hanno dimostrato che è possibile mantenere un plateau di VO2max convenzionale fino a 15 minuti diminuendo il carico di lavoro degli individui, cioè durante il lavoro submassimale (Petot et al., 2012; Billat et al., 2013), non è noto se lo stesso sia possibile per i valori di VO2max superiori riscontrati (Beltrami et al., 2012; Mauger e Sculthorpe, 2012). Il suggerimento che i valori di VO2max siano dipendenti dal compito e che il test di esercizio incrementale convenzionale non produca veri valori massimali è interessante. Tuttavia, capire come questi nuovi protocolli di esercizio producano valori più alti di VO2max, le influenze dei diversi protocolli sulle risposte percettive e sulla misurazione del VO2max, determinare tutte le sue implicazioni e applicazioni, e i meccanismi specifici di limitazione/regolazione alla base del VO2max, sono nuovi orizzonti che gli scienziati dello sport e dell’esercizio possono esplorare.

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